DOMENICA 11 DICEMBRE 1994 - ORE 21
SALA A - PALAZZO DEI CONGRESSI
CONCERTO
IN SCENA SU UN TESTO DI HEINER MÜLLER
VERSIONE
FRANCESE
Regia
HEINER GOEBBELS
Attore
ANDRÉ
WILMS
Batteria e voce
DAVID MOSS
Piano e tastiere
HEINER GOEBBELS
Suono
WILLY BOPP
Luci
MATHIAS PAUL
Produzione in collaborazione
con il teatro am Turm. Francoforte. Artmobil
Eisler ha coniato l'idea di musica gestuale. Oggi questo concetto è superato, ma Goebbels ha le sue radici in questa tradizione; si interessa all'effetto teatrale della musica, alla mediazione tra palcoscenico e platea, e la reazione che ciò provoca. Questo mi interessa per motivi professionali.
Il lavoro di Goebbels va contro la semplificazione del normale. Un'opportunità di trasmettere qualcosa di più del semplice rumore, forse anche testi e, soprattutto, in modo diverso di come ciò avviene nel teatro.
Heiner Müller
La Liberazione di
Prometeo è un testo in prosa che Müller
ha inserito nel suo lavoro come un blocco erratico nel suo lavoro Cemento, un vero scoglio per il teatro che non può fare giustizia con i
metodi teatrali ordinari.
Forse posso
realizzarlo, non so; ma sto provando ‑ con mezzi musicali indipendenti che, nella
gerarchia dell'espressione, non sono al di sotto del testo ma eguali ad esso
(con la forma delle canzoni, collage, flashback e con una specie di tecnica
usata nei film) ‑ a rendere comprensibili alla fine due cose: il grande
fascino che hanno esercitato su di me le dimensioni inimmaginabili del lavoro e
il tempo, la sporcizia e il fetore nel testo; e le nuove prospettive politiche
(con André Gide e Kafka) dell'interpretazione del mito con il quale Müller
umoristicamente e incisivamente dota il doppio carattere di Prometeo: quale
benefattore del genere umano in quanto portatore del fuoco e quale privilegiato
ospite alla tavola degli dei.
Ciò mi ha dato la possibilità di fare analoghe associazioni con altri testi di Heiner Müller (per esempio il suo Der Auftrag) e di lasciare Prometeo penzolante 10.000 anni giù (o su) come un livello intermedio utilizzato in un ascensore nella sua strada per vedere il capo.
L'accettazione
dell'oppressione, la nostalgia dell'ascensore, quella più grande per l'amata
aquila sulla roccia, tutte queste cose sono più forti
del rischio di vivere all'interno di condizioni di vita trasformate.
Heiner Goebbels
Prometeo, che aveva consegnato il fulmine agli uomini senza però
insegnare loro a utilizzarlo contro gli dei, perché partecipava ai pasti degli
dei che, spartiti con gli uomini, sarebbero stati meno abbondanti, fu incatenato
a causa del suo atto, o meglio, a causa della sua omissione, per ordine degli
dei, al Caucaso, da Efesto il fabbro: là, un'aquila con la testa di cane
mangiava quotidianamente il suo fegato, che ricresceva di
continuo.
L'aquila, che lo considerava un pezzo di roccia in parte commestibile, capace di fare piccoli movimenti e, soprattutto quando la si mangiava, di emettere un canto stonato, defecava sopra di lui. Gli escrementi erano il suo nutrimento.
Lui lo restituiva,
trasformato in escrementi suoi, alla pietra, in modo che Eracle, il suo
liberatore, quando dopo tremila anni scalò la montagna senza traccia di uomini,
fu capace, a grande distanza, di individuare il prigioniero, bianco e
luccicante di escrementi d'uccello, ma, incessantemente respinto dal fetore del
muro aveva girato tutt'intorno alla montagna, mentre l'essere con la testa di
cane continuava a mangiare il fegato del prigioniero e a nutrirlo con i propri
escrementi in modo che il fetore aumentava nella misura in cui il liberatore vi
si abituava. Finalmente, favorito dalla pioggia che durò cinquecento anni,
Eracle riuscì a portarsi a distanza di tiro, tappandosi il naso con una mano.
Per tre volte mancò l'aquila giacché, stordito dall'ondata di fetore che lo investiva ogni volta che toglieva la mano dal naso per tendere l’arco, chiudeva involontariamente gli occhi. La terza freccia ferì leggermente il piede destro del prigioniero, la quarta uccise l'aquila.
Prometeo, così si racconta, pianse con grida atroci per l'uccello, suo unico compagno per tremila anni, fonte di nutrimento per il doppio di tremila. Devo forse mangiare le tue frecce, gridava, e dimenticando che aveva conosciuto altri cibi: sei capace di volare, contadino, con i tuoi piedi dì letame? E vomitava disgustato
dall odore di stalla che si era incollato a Eracle da quando aveva pulito le stelle di Augia, perché il letame puzzava va tanto da raggiungere il cielo.
Mangia l’aquila, disse Eracle. Ma Prometeo non poteva capire il significato delle sue parole. Per di più sapeva bene che l'aquila era stata il suo ultimo contatto con gli dei, le sue beccate quotidiane il ricordo che loro avevano di lui. Più mobile del solito nelle sue catene insultava il suo liberatore come un assassino e cercava di sputargli in faccia. Eracle, che si contorceva dal disgusto, nel frattempo andava in cerca dei legamenti con cui il furibondo era alla sua prigione.
Il tempo, le intemperie e
gli escrementi avevano reso impossibile distinguere la carne dal metallo, e
questi dalla pietra. Allentati dai movimenti più violenti del prigioniero, si
erano fatti visibili. Erano divorati dalla ruggine. Soltanto sul pene, la
catena era disgiunta dalla carne, perché Prometeo su quella pietra, perlomeno
durante i primi duemila anni, ogni tanto si era masturbato. Dopo, probabilmente,
aveva dimenticato anche il suo sesso. Della liberazione, gli restò una
cicatrice.
Senza troppa difficoltà, Prometeo si sarebbe
potuto liberare da solo, se non avesse avuto paura dell'aquila, senza armi per
difendersi spossato dai millenni com'era lui. Il suo comportamento durante la
liberazione dimostra che temeva di più la libertà dell’uccello. Gridando e
sbavando, difendeva le sue catene con le unghie e coi denti, contro
l'intervento del liberatore.
Una volta libero, appoggiato sulle mani e sui
piedi urlando per il tormento di doversi muovere con gli arti intorpiditi
reclamava con grida atroci il suo posto tranquillo sulla pietra, sotto l'ala
protettrice dell'aquila, senza altro spostamento, se non quello disposto dagli
dei, con terremoti occasionali. E quando fu di nuovo in grado di camminare,
rifiutò di scendere, come un attore che non vuole abbandonare la sua scena.
Eracle fu costretto a prenderlo sulle spalle per trascinarlo via dalla
montagna.
Altri tremila anni durò la discesa verso gli
uomini. Mentre gli dei distruggevano
completamente la montagna, in modo che per il turbine dei frammenti di pietra
la discesa sembrava piuttosto una caduta, Eracle portava il suo prezioso
bottino, perché non si facesse male, stretto al petto come fosse un bambino.
Aggrappato al
collo del liberatore, Prometeo gli indicava a bassa voce la direzione dei
proiettili, in modo che la maggior parte fu scansata. Nel frattempo, gridava
verso il cielo, offuscato dal turbine delle pietre di essere innocente per la
sua liberazione. Fece seguito il suicidio degli dei.
Uno dopo l'altro si gettarono giù dal loro cielo sulle spalle di Eracle, sfracellandosi nei detriti. Prometeo si fece posto sulla spalla del suo liberatore, assumendo il portamento del vincitore che cavalca un cavallo madido di sudore, fra le grida di giubilo della popolazione.